1482. «Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono»

La semina del mattino

1482. «Sono avidi di campi e li usurpano, di case e se le prendono» (Mi 2,2).

Michea è il sesto dei profeti minori, contemporaneo di Isaia ed a lui somigliante nel pensiero. A lui è attribuito il libro omonimo composto da 7 capitoli nei quali si alternano minacce e promessa. Proveniva dal sud ovest di Giuda ed ha esercitato il suo ministero prima e dopo la presa di Samaria (721 a.C.). La pericope liturgica odierna si inquadra in un oracolo contro gli accaparratori che meditano e tramano iniquità e sottolinea la loro avidità nel desiderio sfrenato di campi e case che usurpano e prendono, opprimendo l’uomo e la sua casa, il proprietario e la sua eredità. L’avidità si manifesta a volte come una vera e propria idolatria che quando prende la mente ed il cuore provoca un desiderio insaziabile di beni fino al punto che più si ha, più ancora si desidera avere. Chi in essa cade ne diventa schiavo fino all’aberrazione di non saper riconoscere nessuno, né i propri cari, né lo stesso Dio. Al tempo di Michea queste persone erano anche potenti, dominanti e senza scrupoli. In forza del potere pensavano di potersi permettere di tutto perpetrando ingiustizie e soprusi con la terribile illusione di essere quasi come Dio. Il richiamo del profeta è puntuale ed anche se aspro vuole ricordare che Dio ancora c’è e che vuole fare aprire gli occhi a chi, in preda di una sfrenata avidità non guarda in faccia a nessuno e si attira inesorabilmente la sua ira. Le sue parole sono quanto mai attuali ad ogni livello e per ogni condizione sociale e civile. È proprio vero che il peccato più grande dell’umanità di oggi è il potere. Esso determina oppressione. La sciagura, la calamità e la rovina sono comunque sempre all’angolo. P. Angelo Sardone