Mattutino di speranza
6 giugno 2020
Il compito di pastore delle anime è bellissimo, ma gravido di responsabilità. Unisce infatti in maniera mirabile la dimensione esterna propriamente umana del servizio ecclesiale e sociale, della vicinanza affettiva e dell’alterità generosa, ad un affascinante mistero in cui è immersa la vita del sacerdote, dove si coniano le sue parole, si indirizzano le sue operazioni, viene messa a disposizione di tutti la sua sconvolgente identità di “alter Christus”, un altro Gesù Cristo. Il sacerdozio al quale senza mio merito Gesù mi ha chiamato, mentre da una parte è un grande onore che non mi sono attribuito ma mi è stato dato da Dio nella sua infinita bontà e misericordia, dall’altra, riserva una grande e grave responsabilità umana, spirituale e morale. La vita del sacerdote naviga nel grande mare di un mistero incomprensibile già a lui stesso, talmente è grande la dignità e ciò che ne consegue. La sua identità lo pone nel contesto di una creatura che viene da Dio stesso “riservata”, per essere dedita al servizio esclusivo di Dio e dei fratelli. Non si tratta di un mestiere, più o meno redditizio, ma della risposta ad una vocazione e missione che consegue ad un grande amore, una chiamata di speciale consacrazione che Dio rivolge ad alcuni uomini scelti di mezzo ad altri uomini e costituiti in favore degli uomini per tutto ciò che riguarda Dio (Eb 5,). La Sacra Scrittura presenta l’emblematica e misteriosa figura di Melchisedek, sacerdote del Dio altissimo che offre pane e vino (Gen 14,18): a lui fanno riferimento Davide e l’autore della Lettera agli Ebrei. Il libro del Deuteronomio, poi, presenta il sacerdozio, proprio della tribù di Levi, e delinea la fisionomia del sacerdote: egli è staccato dall’eredità di Israele; vive dei sacrifici consumati per il Signore e della sua eredità, non ha alcuna eredità tra i fratelli perché il Signore è la sua eredità. In cambio a lui sono dovute le primizie del frumento, del mosto e dell’olio, perché è stato scelto per attendere al servizio del nome del Signore (Dt 18,1-5). Per quanto arcaiche possono sembrare queste indicazioni, sono intramontabili fondamenti ai quali ancora oggi si ispira l’identità del sacerdozio cattolico che fa riferimento a Gesù Cristo «divenuto sommo sacerdote per sempre secondo l’ordine di Melchìsedek» (Eb 6,20). Il sacerdozio è una grandiosa e nobile dignità che rende l’uomo “innocente della sua grandezza” come direbbe il celebre e brillante predicatore domenicano Henri-Dominique Lacordaire (1802-1861). La debolezza tipicamente umana viene assunta dalla potenza santificate di Cristo sommo ed eterno sacerdote che nel sacramento dell’ordine trasforma ontologicamente cioè nell’essere suo più profondo, un povero uomo, debole, peccatore anch’egli, generandolo come figlio, rendendolo suo ministro per sempre, dotandolo di doni e carismi particolari. Oltre il potere sacramentale di consacrare e perdonare, a lui è attribuito il sublime compito dell’accompagnamento, della guida spirituale e dell’esercizio della triplice funzione di Cristo: santificare, insegnare e reggere il popolo di Dio a lui affidato. Ciò vale sia per il sacerdote secolare che svolge il suo ministero nell’ambito di una diocesi in comunione ed obbedienza al proprio vescovo, che per il sacerdote religioso, come me, che fa riferimento ai legittimi superiori. La guida delle anime è quanto di più delicato ed avvincente si possa immaginare ed esprimere dal punto di vista umano e relazionale; qualunque forma di competenza accademica, esperienziale e culturale non è mai sufficiente dinanzi al mistero profondo del cuore e della vita di ogni essere umano creato ad immagine di Dio. Per me ogni persona è sacra. Mi tolgo i calzari quando mi accingo ad entrare con pudore riverenziale e gioia stupefacente nella vita di un altro, qualunque età abbia, uomo o donna che sia, consapevole che quella è terra sacra, inviolabile, che ha Dio per padrone ed agricoltore e me come lavoratore dalla prima all’ultima ora del giorno, che sfida la buona e la cattiva stagione e rinnova perennemente il suo contratto di amore e per amore in termini di dedizione incondizionata di tempo, affetto, competenza, senza nulla pretendere. Io posso solamente affacciarmi nella tua vita con delicatezza e rimanervi non per godere del suo possesso, ma nella gioia di donarmi e spendermi fino alla morte. Quante gioie si sperimentano in tutto questo, ma anche quanta sofferenza che al mondo sarà nascosta e potrà essere compresa da chi sta accanto senza chiedere ed entra nel mio cuore senza farsi accorgere, con lo stesso pudore, la stessa intuizione con la quale io mi sono affacciato e sono entrato nella sua vita. Tutto ciò che ne può venire, sarà la riconoscenza intelligente e generosa di chi avrà compreso che la sua esistenza può essere cambiata grazie alla disponibilità di qualcuno che non ha operato per merito suo, ma su dettato e precisa e misteriosa indicazione di Dio. Voglio continuare ad essere pastore amante delle pecore, fosse anche una sola, soprattutto quando questa vaga per valli impervie, per sentieri che allettano con una vegetazione bella da vedere e mangiare ma effimera ed amara e nascondono insidie e tranelli su una strada apparentemente facile e generatrice di una felicità senza tenuta di stabilità. E questo, ancor più quando la pecora riassume in se stessa categorie e preziosità straordinarie: è agnella timida ed indifesa, è esperta pecora madre, è grassa ed acciaccata per l’ingordigia e la delusione, è ferita e dolorante per ciò che le è capitato. La mia responsabilità è schiacciante, soprattutto quando vivo la solitudine, l’incomprensione, talora anche il rifiuto; ma la gioia del donare e donarmi è ancor più grande ed appagante. Ricordo i nomi, le storie, le vite delle mie pecorelle e dei miei agnelli. Sono intrecciate nella mia storia, nella mia vita. Le lagrime raccolte ed asciugate sono confuse con le mie talora note solo a Dio. Mi stanno a cuore soprattutto le pecore più deboli ed apparentemente insignificanti. Il Signore mi fa continuamente la sorpresa di mettermi accanto pecore ed agnelli straordinari anche nel loro mistero di vita: sono diventati per me padri e madri, figlie e figlie, fratelli e sorelle. Non chiedo nulla. Voglio solo dare. Se mi ripagano di un sorriso, di un ricordo orante, di una telefonata, di un “ti voglio bene”, sono felice e continuo a dire: “Grazie Signore di avermi fatto tuo sacerdote”, proprio come il 14 giugno1924 S. Annibale suggerì nell’orecchio, dopo la Comunione, ad uno dei suoi primi due sacerdoti rogazionisti, il giorno della sua ordinazione. Mille volte nascessi, mille volte continuerei ad essere sacerdote e a dare la mia vita per gli altri, sacerdos in aeternum! P. Angelo Sardone